Mi capita spesso di ricevere complimenti per il modo in cui riesco a descrivere i paesaggi nei miei romanzi. Altrettanto apprezzati sono i personaggi nei loro atteggiamenti, modi di dire e fare. E subito dopo i commenti, la domanda che mi viene fatta è “Ma che fantasia! Come fai?”
La risposta è semplice. Descrivo ciò che conosco. Tutti gli sfondi, le situazioni e i personaggi, io li ho visti. Così ho fatto sia nella saga di Derbeer dei Mille Anni, che in Aghjkenam, il segreto della città perduta. Perfino nei racconti mi rapporto con ciò che mi è più familiare (per esempio, Occhi nella nebbia nell’antologia I vampiri? non esistono è ambientato a Trieste, città dove sono nata e vivo).
A prima vista può sembrare scontato, ma vi assicuro che non è così. A volte gli autori cercano di stupire con effetti speciali e si incartano in situazioni al di sopra delle loro possibilità. Parlare di ciò che si conosce è dunque una scelta “vincente”. A questo punto non mi rimane che svelare il mio piccolo segreto. Sì, insomma, vi racconto perché ho da sempre questa sana abitudine.
Il merito è della scrittrice Lina Pietravalle (1887 – 1956) . In seconda media avevo letto un suo racconto che mi aveva colpita moltissimo. Qualche giorno fa sono andata a cercarlo nella mia vecchia antologia. Devo dire che l’ho riletto molto volentieri. Ritengo giusto condividere questo piacere con chi mi segue sul blog. Non posso trascriverlo tutto, ma alcune parti sì…
La piccola Lina doveva affrontare l’esame di quinta elementare svolgendo, tra le altre cose, un piccolo componimento. Questo il titolo:
“SCRIVI QUELLO CHE VEDI DALLA TUA FINESTRA”
(…) Intinsi la penna in un calamaio immenso che me l’inzuppò fino alla cima. La ripulii con la carta asciugante, borbottando, e con le mani nere come un carbonaio cominciai a scrivere presso a poco così:
“Dalla mia finestra io non vedo quasi niente, perché i compiti li faccio in un camerino piccolissimo dove non c’è distrazioni; è un camerino di sbarazzo, con le sedie rotte, bambole senza testa, e gabbie vuote. Topi non ce ne sono, se li mangiò il gatto, poi lui è morto d’indigestione di topi, e da allora in poi io guardo di fronte a me la finestra di madama Ghitìn con sopra un bellissimo gatto, grasso e con la faccia da uomo, detto Toni. Toni mi piace perché è nero e peloso, gli occhi rossi, le labbra rosse; gli dico guardandolo: – Grama pelle, tu sei un assassino. – Lui mi risponde: – Sì, ma sono un assassino di topi e non c’è niente di male. – E io: – Fa’ il tuo dovere e non temere.
(…) Beato te, gatto nero, che non hai niente da fare: non compiti seccanti e lezioni che non se ne capisce niente; che sei felice e uccidi chi ti pare e piace, e graffi e poi ti lecchi i baffoni da re, e te ne stai sempre lì, sdraiato, pacifico, a sentirti i complimenti di Madama Ghitìn. Io vorrei essere te, gatto nero, e son sicura che col tuo zampo a questo tema ti prendi un bel dieci e un topo fresco.”
Il parere della commissione d’esame fu negativo. Il tema della piccola Lina non era “tradizionale”, usciva da ogni schema tanto era fresco e vivo. Quattro. Questo fu il verdetto. E invece grandi elogi e splendidi voti andarono a temi di bambini che parlarono di scene melodrammatiche con parenti morti, ospedali, guerre e scene assolutamente inverosimili. Tutto sembrava perduto, ma l’intervento del Presidente della Commissione riequilibrò la situazione. Il voto fu mutato in un sette. E qui vi trascrivo il finale.
(…) Il Presidente era lì sulla porta della Direzione, gigante vigoroso e sorridente. Senza conoscermi, dall’atteggiamento selvatico del corruccio e del cordoglio, mi riconobbe e si mise a ridere.
– Che cosa hai visto dalla tua finestra, cittina?
– Ho visto un gatto! – risposi, col mento sul petto, strofinandomi il naso.
– Hai ragione – fece lui, col vocione cavernoso, – e scrivi sempre quello che vedi.
Poi tirò fuori dalla tasca una caramella. Quel signore era Dino Mantovani
Ecco, adesso sapete perché. Piccoli insegnamenti che mi sono rimasti nel cuore. Che vi devo dire? A scuola mi propinavano spesso anche le poesie del Pascoli…